Alla scoperta degli esport in Italia. L’intervista a Simone “Akira” Trimarchi

Alla scoperta degli esport in Italia. L’intervista a Simone “Akira” Trimarchi

Con eventi capaci di riempire gli stadi europei e non solo, e con introiti che si apprestano a superare i 900 milioni di dollari, gli esport abbandonano la nicchia in cui sono stati rinchiusi per quasi 20 anni, e si apprestano a diventare il nuovo, e forse più grande, movimento relativo al mondo dei videogame.

Ex campione di videogiochi strategici, giornalista, caster e Head of Content di ESL Italy. Simone “Akira” Trimarchi è attivo nel panorama degli esports da quando questi hanno cominciato a muovere i primi, timidi, passi sulla scena internazionale. Grazie a ESL, piattaforma leader nel panorama degli sport digitali, Akira è diventato, di fatto, una delle voci più autorevoli e interessanti dell’esport italiano, non solo attraverso gli entusiasmanti commenti in diretta dei principali tornei nostrani, ma anche grazie alla sua accurata e puntuale analisi del settore, che negli ultimi anni ha registrato, specie grazie alle piattaforme di streaming digitale come Twitch, un incremento tanto nell’interesse del pubblico, quanto nel fatturato. Gli abbiamo quindi chiesto qual è la situazione italiana in termini di esport, e ci siamo lasciati guidare dalla sua esperienza alla scoperta di un settore, per molti forse stravagante, ma le cui prospettive economiche cominciano a solleticare anche chi, di videogame, non ha che un vago ricordo dai tempi delle sale giochi.

Simone partiamo subito con una domanda che balena immediatamente nella testa di tutto quelli che sentono parlare di esports: “Perché dovrei guardare qualcun’altro giocare i videogame?”

Perché, quando si tratta di esport (e non di streamer o youtuber) le emozioni che si provano nell’assistere alle partite dei tornei sono assolutamente paragonabili a quelle trasmesse dagli sport reali. I giocatori piangono, soffrono, si aiutano tra di loro e esplodono in urli liberatori alla fine di un round, come dopo aver segnato un goal in uno stadio. E’ qualcosa di inimmaginabile se non si assiste con i propri occhi, ma è reale come questa l’intervista .

Dunque secondo il tuo punto di vista esiste una differenza tra il rapporto che si crea empaticamente tra spettatore e l’atleta o il team. Parliamo di qualcosa di simile a quanto avviene tra una tifoseria calcistica e un club?
A mio avviso il rapporto è simile anzi, se vogliamo, quello tra fan dell’esport e il proprio team è molto più conveniente a quest’ultimo rispetto ad un fan di una squadra di calcio. I soldi spesi mediamente da un fan di esport sono infatti maggiori di quelli di un fan di una squadra di uno sport tradizionale. Questo è ovvio soprattutto perché al momento il numero dei secondi è molto più grande e include anche persone non inclini a spendere. Per chi sponsorizza gli eventi, però, è molto importante sapere che dietro a grandi numeri relativi agli spettatori degli eventi di videogiochi c’è anche un possibile grande valore.

A questo punto la seconda domanda è d’obbligo: “che cos’è un caster?”

Caster viene dall’inglese “Shoutcaster” che sta per “commentatore che urla un po’”, un bel po’ aggiungo io. Siamo commentatori, telecronisti che cercano di far emozionare i propri spettatori mettendoci tanta passione, ecco perché le urla di cui sopra. Professionalmente si tratta di una figura ibrida tra un giornalista sportivo (perché deve sapere dati sui team coinvolti, sui giocatori, ecc) e un esperto del videogioco al quale presta le corde vocali.

Quand’è che una competizione tra giocatori assume le caratteristiche di un esport?

Quando è organizzata e quando vi prendono parte team professionistici o semi-professionistici. Se accendi la console e giochi una partita a FIFA contro un avvesario online a caso non stai facendo esport. Se invece vai ad un torneo e ti affronti per un qualche premio, si.

Simone secondo il tuo giudizio che cosa ha permesso la trasformazione del videogioco da media da sollazzo da salotto a vera e propria piattaforma sportiva?
La risposta a questa domanda potrebbe essere un libro intero. Difficile condensare il mio pensiero in poche righe ma ciò che ha permesso questo incantesimo è senza dubbio la spettacolarità degli eventi a livello televisivo/teatrale. È lo stesso cammino del poker sportivo negli anni 2000: dai tavoli di gioco a spettacolo televisivo. Si creano personaggi raccontando storie e si appassionano gli spettatori.

Quali sono i videogame che meglio si prestano a questo tipo di competizioni, e quali sono quelli che attualmente sono sulla cresta dell’onda in termini di popolarità e introiti?
I due pesi massimo del mercato esport sono sicuramente Counter-Strike: Global Offensive (sviluppato da Valve, e pubblicato nel 2012 ndr.) e League of Legends (Riot Games, 2009 ndr.). Il primo è sicuramente l’esport più famoso in occidente e gli eventi organizzati da ESL, FaceIT o altre aziende riempiono palazzetti dello sport dalla Polonia (Katowice), alla Germania (Colonia), dal Brasile (Belo Horizonte) all’Inghilterra (i prossimi major si terranno a Londra). È il videogioco in cui un evento detiene il recordo di spettatori contemporanei su Twitch: erano presenti ben 1.127.000 spettatori a seguire la finalissima del Boston Major. Il titolo è da sempre nei primi posti della classifica di vendita di Steam, il più popolare marketplace di videogiochi al mondo e costa circa 30€. Il secondo invece è edito da Riot Games è il videogioco per PC con più utenti attivi mensilmente (dati aprile 2018). Fa parte del genere dei MOBA (genere strategico online in cui due squadre si sfidano in mappe chise nel tentativo di distruggere la base del team avversario ndr.) ed essendo scaricabile gratuitamente ha un modello di business basato sugli acquisti di skin e personaggi che ne cambiano l’estetica. Gli eventi di League of Legends si dividono per regione (America, Europa, Asia) ed hanno una partecipazione di pubblico immensa. Gli ultimi mondiali si sono tenuti nello stadio olimpico di Pechino e sono stati visti da circa 60 milioni di persone totali.

Spesso ci si riferisce all’esport come un “fenomeno”, un termine che forse lo definisce come un qualcosa che, prima o poi, sarà destinato a morire. Tu credi sia corretta questa nomenclatura? In sostanza l’esport è qui per restare?
Io parlo sempre di esport come “movimento” e mai come fenomeno. Esiste da 20 anni, anche se in pochi lo sanno e siamo rimasti in pochissimi a ricordarci i primi tempi, almeno in Italia. Sarà sicuramente qui per almeno altrettanti anni e nonostante sia molto difficile nella società ultra digitalizzata odierna capire dove andrà il mercato direi che non morirà mai.

20 anni non sono affatto pochi, allora perché questo ritardo nell’arrivare al grande pubblico? Qual è stato il passo, prima insormontabile, che ha permesso la consacrazione degli esports nel nostro paese?

Il passo sicuramente più importante è stato quello degli investimenti (spesso provenienti da sport non endemici): mentre in passato organizzatori di tornei e team facevano fatica ad “arrivare a fine mese” ora il mercato è addirittura sottodimensionato rispetto all’immensa richiesta che ci sta arrivando. Ciò che ha dato “la scossa”, se vogliamo, è stata la notizia dell’apertura del CIO agli Sport Elettronici del 27 Ottobre: in un comunicato il Comitato Olimpico Internazionale ha ammesso di star guardando con interesse al fenomeno. Da lì, speculazioni a parte, l’attenzione mediatica è stata fortissima.

Quanto credi influisca l’investimento sugli esport nello sviluppo del settore dei videogame?
Ancora molto poco. I videogame sono una torta da circa 105 miliardi di dollari e solamente una minima parte di questo fatturato proviene dai biglietti venduti agli eventi esport, dai diritti televisivi e dal merchandise. Stiamo parlando di meno dell’1% ma, in questa cifra, non è considerata la vendita dei videogiochi che ricade, appunto, nel fatturato dei publisher. La domanda sarebbe quindi: lo sviluppo di una scena esport riesce a far vendere più copie di un determinato videogioco? La risposta è assolutamente si e ne è la dimostrazione dell’ascesa di Rainbow Six Siege di Ubisoft.

Sempre parlando di denaro, è stato stimato che entro il 2020 gli esports raggiungeranno il traguardo di introiti di circa 1.500 milioni, ma come funziona il business degli esports? Chi sono i principali beneficiari di questo mostruoso giro d’affari?
Come detto in precedenza gli eSports sono un ibrido tremendamente difficile da inscatolare. Da una parte ci sono gli eventi che guadagnano grazie alle sponsorizzazioni, ai biglietti venduti per assistere alle partite, ai diritti televisivi ceduti ai vari network. Dall’altra ci sono i publisher e cioè chi crea videogiochi: quest’ultimi non sempre organizzano eventi ma guardano con molta attenzione a questo mercato creando videogiochi sempre più “esport ready”. Ultimo ma non meno importante ci sono i team: anch’essi guadagnano dalle sponsorizzazioni ma anche vendendo merchandise e fungendo da agenzie per i propri giocatori, che in alcuni casi sono diventati ormai delle celebrità.

Come si piazza l’Italia nel panorama delle piazze esports? E come siamo messi in termini di investimenti e volume di eventi rispetto al panorama mondiale?
Non esistono numeri rappresentanti il giro d’affari italiani riguardante gli esport. Una mappatura degna di questo nome non è ancora stata fatta ma a mio avviso siamo molto lontani dai fasti di paesi come la Germania o addirittura la Turchia o il Portogallo, dove gli eventi già riempiono i palazzetti dello sport. Da noi i tornei si fanno ancora a cornice di eventi di videogiochi più grandi come Milan Games Week che sono fiere generaliste che portano migliaia di ragazzi in location per vedere differenti attrazioni: gli ultimi videogiochi usciti sul mercato, spettacoli di influencer o infine anche eventi esport. Quando quest’ultimi riempiranno da soli un palazzetto potremo dire di essere arrivati al pari degli altri paesi europei.

Pensando al calcio, le sponsorizzazioni tecniche sono una parte a dir poco fondamentale del business, tra partnership, pubblicità e quant’altro possa influire economicamente al settore. Gli esports replicano lo stesso modello economico? Si basano, insomma, su una larga fetta di introiti derivanti dalle partnership?
Assolutamente si. Le aziende che sono verticali sull’esport sono assolutamente dipendenti dalle partenrship con i propri sponsor che investono in pubblicità relativamente al posizionamento del proprio marchio agli eventi. Stessa cosa con i team che hanno bisogno di investimenti da parte degli sponsor per riuscire a provvedere alle ingenti spese di trasporto e pagamento degli stipendi. Non ho a disposizione la percentuale relativa a quanto questo influisca sul fatturato delle singole aziende ma a mio avviso è molto alta.

Chi sono i principali interessati di questo settore? Se escludiamo gli atleti, chi ha, secondo il tuo punto di vista, l’interesse maggiore nello sviluppo del panorama competitivo?
Innanzitutto gli organizzatori di tornei. Gli esport hanno permesso a soggetti terzi, che non potevano affrontare le elevate barriere all’ingresso del mercato dei videogiochi, di poter sfruttare l’onda lunga di questo inarrestabile mercato facendo altro. Solo ora i publisher, cioè chi crea attivamente videogiochi, si è accorto del fenomeno e sta contribuendo a farlo esplodere in tutto il mondo. Tornando agli organizzatori, gli stessi hanno permesso a brand non endemici (come Coca-Cola, Mercedes, Vodafone e tanti altri) di agganciarsi al carro dei vincitori.

Come si diventa un professionista degli esport? Come può, insomma, un ragazzo con la passione per i videogame ambire a fare il salto di qualità?
Ho scritto un intero articolo sulla cosa. Riassumendo: si gioca, si migliora, si entra in un “clan” (in una squadra), si migliora ancora, si partecipa al primo torneo, si migliora ancora e poi si tirano le somme. Se si riesce a competere con gli europei si cerca di fare il salto di qualità facendosi comprare da un team più grande capace di elargire uno stipendio.

Pensi che sia possibile che prima o poi anche le Olimpiadi accolgano tra le discipline agonistiche gli esport? E in chiusura, pensi che sia un riconoscimento necessario o accessorio al consolidamento dell’esport in quanto disciplina sportiva?

Posto che io sono un grande detrattore della cosa e NON mi piacerebbe vedere gli esport vicino alla maratona nonostante io abbia dedicato quasi la mia intera vita ai primi, penso proprio che sarà possibile. Il Comitato Olimpico Internazionale ha fiutato l’affare e può svecchiare l’immagine dei giochi soprattutto presso il pubblico quindi, visto che la lista di discipline sportive una volta includeva canto e scultura, non vedo perché non sia possibile che rientrino i videogiochi, visto l’immenso giro d’affari. Detto ciò no, non è assolutamente necessario: gli esport sono un’onda che ben presto si abbatterà su tutti coloro che non conoscono il movimento. Con l’aiuto delle istituzioni o senza. Ripeto, se si riempiono già oggi gli stadi di spettatori si può anche rimanere “videogiochi” e non sport, diventando contemporaneamente mainstream.

Raffaele Giasi