Woodstock. Rock save the world

Woodstock. Rock save the world

Quella volta, qualcosa cambiò e per sempre, nella mente di chi c’era e nell’esistenza di un intero, grande (e contraddittorio) paese. Quell’anno, era il 1969, la storia stava scrivendo pagine fondamentali, più importanti di qualsiasi concerto. E invece, per tre giorni, tutto si ferma. O meglio, tutto continua, ma sembra fermarsi. Sotto i suoni, anzi i colpi, di qualche chitarra, delle droghe allucinogene e di migliaia e migliaia di corpi infangati, spesso nudi e, soprattutto, liberi. A Woodstock doveva essere un festival. Storico, certo: trentadue artisti, tra i migliori di allora, “il più grande spettacolo rock di tutti i tempi”. E’ stato molto di più. E’ stato il viaggio sognante dell’Altra America, quella che nel fango ascoltava le ipnotiche note di Joplin e Baez (sul palco al sesto mese di gravidanza), il gioioso inno di Freedom, completamente improvvisato da Richie Havens, le inarrivabili avventure psichedeliche di Jefferson Airplane e Grateful Dead, le schitarrate di Carlos Santana, che suona strafatto di mescalina e trascina tutti al ritmo della sua delirante Soul Sacrifice. E’ l’America che condivide e partecipa alla splendida rabbia generazionale degli Who, che guarda le loro chitarre infrangersi sugli amplificatori e volare sulle loro stesse teste, in gesti tanto incomprensibili quanto pieni di significato. E’ la stessa America che lottava pacificamente per i diritti civili, il femminismo e contro le politiche della Guerra Fredda, ben più folli del denigrato stile di vita hippie, contro una guerra che non poteva capire e che bruciava vite inutilmente, laggiù in Vietnam.

La festa di Woodstock si materializzò a 80 miglia a Nord di New York City, nella cittadina di Bethel, ma l’utopico urlo di quelli che vi hanno partecipato si udì ovunque nel pianeta ed è diventato il simbolo della rivoluzione culturale di quegli anni. Non era facile, negli iper-conservatori States. Per una volta, la giovinezza vinse e furono davvero “3 days of peace and music”. Eppure, l’idea degli organizzatori era tutt’altro che idealistica. Lo spirito della capitalistica Woodstock Venture, la società che mise in piedi il festival, era quasi all’opposto rispetto al movimento che si apprestava inconsciamente a rappresentare. Il festival di Woodstock, inizialmente, era nulla più che un’iniziativa commerciale, messa in piedi grazie ad un annuncio sul New York Times. Un modo come un altro di guadagnare qualche soldo. Le previsioni, tra l’altro, erano modeste. 50.000 persone attese a 6 dollari al giorno, il 15 agosto sono diventate 500.000 e poi un’intera generazione. Giovani spensierati e festanti, che probabilmente non potevano capire a fondo il significato di quello che stavano vivendo. Avrebbero continuato a ballare e a rotolarsi nel fango ancora a lungo, nudi e liberi, e a fare l’amore nelle tende e tra i prati, senza aver paura di nulla, senza molti pensieri.

Nulla sembrava poterli fermare, non c’è riuscita la pioggia, il diluvio, non c’è riuscita la forza autodistruttiva delle droghe. L’idealistico sogno di pace sarebbe continuato. Fino al risveglio, che fu sferzante e crudele, ma al tempo dolce e immensamente iconico. Le stridule corde della Stratocaster più leggendaria di tutte vibrarono e risuonarono tra il pubblico sfinito e infinito. Il capo chino, il volto coperto da sporchi riccioli neri, gli occhi chiusi di un meticcio che ha cambiato il modo di vivere la musica. Jimi Hendrix, sull’infernale sfondo del Vietnam, a pochi giorni dal sangue di Martin Luther King, di Kennedy e dei loro ideali crudelmente infranti, dipinge Star Spangled Banner, il distorto inno americano che colpisce inesorabilmente tutti i presenti e li riporta sulla terra.

Le note si trasformano in assordanti B52, in esplosioni impressionanti. Dalle dita di Hendrix non esce più soltanto musica, ma tutto il mondo reale, fatto di violenza, interessi economici e di tante altre piccole e grandi cose che la Woodstock Nation non poteva più sopportare. E allora l’enorme spiazzo del concerto smette improvvisamente di essere l’idealistico paradiso della cultura alternativa degli anni ’60 e Bethel torna ad essere una semplice ordinaria cittadina, in quel mondo che di pace e amore preferiva non sentirne parlare.

Ormai, sono passati quarant’anni da quel leggendario week end. Oggi, lo spirito di quella festa è lontano più che mai. Gli ideali di condivisione e solidarietà di allora hanno lasciato il posto all’individualismo e al consumismo della I-pod generation. Il mito del festival statunitense, però, rimane. Torna utile alle case discografiche, con i diritti degli artisti di allora, alle case editrici e di produzione cinematografica, che in occasione del quadriennale tempestano di libri e documentari (in triplo dvd in confezione deluxe) i megastore dei centri commerciali (non mancano, però, le opere di spessore, come “Taking Woodstock”, diretto da Ang Lee). Torna utile persino ad un museo. Al posto delle tende e del fango, oggi, nella campagna di Bethel, sorge un centro culturale da 100 milioni di dollari, con auditorium e museo. All’interno, una collezione permanente di opere, video e cimeli per celebrare il festival musicale. E’ facile immaginare quanto un’iniziativa del genere possa far storcere il naso ai puristi di Woodstock, non certo felici di vedere i luoghi dell’amato festival al servizio del business. D’altra parte, lo stesso Michael Lang, principale organizzatore del festival del ’69, ha pubblicato un libro per Arcana Edizioni, “Woodstock”, che però, tra tutte le iniziative celebrative, è la più interessante, non foss’altro perchè il promotore dello storico concerto racconta le diverse tappe che hanno portato all’organizzazione del concerto.

Aldo Gianfrate