Dio salvi la Regina

Dio salvi la Regina

Alla prima uscita pubblica di Jeremy Corbyn dopo le primarie è già polemica: alla cerimonia per i 75 anni della Battaglia d’Inghilterra, nella cattedrale di Saint Paul, non canta l’inno nazionale, scatenando l’indignazione dei conservatori

Le elezioni di maggio sono state una prova tutt’altro che facile per i laburisti.
Assestato il duro colpo della lampante perdita di consensi, nonché di voti – è stata la peggior sconfitta elettorale registrata dal partito dal 1987, quando, tuttavia, si combatteva contro la ben più temibile Iron Lady – , messe da parte le accuse a Ed Miliband per non aver retto la pressione non tanto dei conservatori, quanto dei nazionalisti, la cui avanzata ha comportato senza ombra di dubbio una notevole dispersione di voti, chi si fa spazio tra le fila del partito non è un volto nuovo, ma un nome noto del passato.
Jeremy Corbyn, 30 anni in Parlamento, un trascorso da socialista a tutto tondo, è protagonista di uno scontro ideologico, più che politico, con un’altra vecchia conoscenza del partito, quel Tony Blair ormai ombra del leader che fu; le soluzioni proposte alla crisi del partito sono facilmente intuibili sia dall’una che dall’altra parte della barricata: centrismo puro per Blair e virata a sinistra per Corbyn.

Quella che Corbyn condanna è una sempre più evidente e palpabile analogia tra laburisti e alcune posizioni dei conservatori, lui che continua a portare il baluardo del vecchio Labour, rigorosamente anti- monarchico, anti-austerity e pacifista. I blairiani contestano che, con la sua elezione, “Jez il rosso” relegherà il partito al ruolo di strenua opposizione, una situazione in cui si rischierebbe la stagnazione per anni. Una critica innegabile, visto il tonfo di Ed Miliband che nell’ultima corsa alla presidenza non aveva voluto rinunciare a un’impostazione fortemente di sinistra. Il risultato? Dimissioni e altri cinque anni di governo Cameron.

Resta il ricordo dei tempi gloriosi in cui Blair portò il partito a schiaccianti vittorie e a ben tre mandati al governo.
Il programma radicale di Corbyn, che propone un sistema di imposte progressive, la fine dell’ austerity, l’introduzione del salario minimo garantito, insieme a un piano di nazionalizzazione e alla nascita di una banca nazionale che investa in infrastrutture, preoccupa non poco all’interno del partito. La spaccatura è ormai sotto gli occhi di tutti, non da ultimo l’affermazione di Tony Blair «Se il cuore è dalla parte di Corbyn, avete bisogno di un trapianto».

I due non sono di certo nuovi allo scontro, Corbyn ha da sempre contestato una serie di scelte politiche del collega, come la discesa in campo ai tempi della crisi irachena.
Fatto sta che l’impostazione austera e puramente socialista di Corbyn ha pagato di più in quanto a preferenze: sulla scia del successo di Syriza e Podemos, ha confermato tutti i sondaggi che lo davano come favorito alla segreteria del partito e ha sbaragliato tutti i concorrenti, con il 59,5% dei voti, 250mila elettori su una platea di poco più 420mila votanti, una dato schiacciante se si considera la scarsa partecipazione alle elezioni politiche che si registra di solito in Gran Bretagna.

Di certo c’è da imputare al partito laburista un notevole ritardo nei tempi di reazione all’avanzata rossa di Corbyn, che ha iniziato a registrare successi nei sondaggi quando ancora larga parte degli esponenti del partito era intenta a leccarsi le ferite post-elettorali.
Così ora sembra che il fenomeno sia inarrestabile e che la fine del partito, che con le scelte di Corbyn si ridurrebbe a un mero movimento di protesta relegato nelle fila di un’imperitura opposizione, sia sempre più vicina.
Lo stesso Boris Johnson, sindaco conservatore di Londra, non ha potuto fare a meno di esprimere il suo stupore per una simile scelta, o meglio, per aver lasciato il Rosso libero nella sua avanzata verso la segreteria, e non senza un certo sadismo: il paragone è stato con la scena finale del film «Lo squalo» di Steven Spielberg, quando il capo della polizia Brody sta per sparare il colpo che farà esplodere la bombola d’ossigeno finita nelle fauci dello squalo: il terrore sul suo volto si trasforma in speranza, poi in incredulità, poi in gioia sfrenata.
È un’inestimabile fortuna quella capitata tra le mani dei Conservatori, soprattutto quella riforma del sistema elettorale del partito, che ora consente a ogni iscritto di votare e conta i singoli voti, che ha fatto balzare Corbyn in testa ai consensi.

Tuttavia gli iscritti sono aumentati di decine di migliaia in poche settimane, facendo pensare che molti elettori laburisti, come Corbyn, siano scontenti della svolta moderata del partito impressa da Tony Blair e da Ed Miliband, e abbiano una grande nostalgia degli Anni ’70, gli anni delle proteste e dello scontento che portarono al governo – per reazione e per paura – Margaret Thatcher e le sue politiche liberiste.
Un partito laburista troppo spostato a sinistra potrebbe garantire ai conservatori molti anni di dominio della scena politica, proprio come avvenne alla fine di quegli Anni ’70 di cui Corbyn ha così tanta nostalgia.
A dirimere la questione è arrivato il commento del noto commentatore ed esperto di economia Anthony Hilton: “Le persone non votarono Margaret Thatcher nel 1979 perché si erano improvvisamente convinte dei meriti del mercato, delle politiche monetarie e di quelle liberiste. La votarono perché erano stufe degli scioperi e di essere ostaggio dei leader sindacali. Allo stesso modo le persone non hanno votato Jeremy Corbyn come nuovo leader del Labour perché si sono riscoperte da un momento all’altro socialiste. Lo hanno votato perché sono stufe dell’austerity e del comportamento dei banchieri e dei grandi dirigenti di impresa che danno l’impressione che l’intero sistema economico esista solo per il loro beneficio”.

Martina Morelli