Il mito di Marilyn

Il mito di Marilyn

Bollente era la notte californiana che cinquant’anni fa si portò via Marilyn Monroe. La ritrovarono spogliata ed accasciata sul letto, come se, anche da morta, la diva avesse voluto giocare con quelle sue nudità che avevano ispirato tanti scandali hollywoodiani. Era il 1962; un numero che è diventato la tiratura limitata della biografia fotografica con cui la Taschen celebra oggi la donna più sexy del mondo (Marilyn Monroe, 322 pagine, 750 Euro), una rarità editoriale che unisce le ricerche che il giornalista Norman Mailer raccolse nel 1973 e le foto che Bert Stern scattò al Bel Air Hotel sei settimane prima che l’attrice morisse. E c’è effettivamente qualcosa di luttuoso in quelle immagini in bianco e nero passate alla storia, a conferma di un’attenzione maniacale per la sua immagine. Una diva omaggiata da Blake Lively in una puntata antologica di Gossip Girl, e persino da Uma Thurman in Smash, ma che morbida e lieve appare nella mostra fiorentina che Salvatore Ferragamo ha dedicato alla sua cliente più ambita (Marilyn, Museo Salvatore Ferragamo, dal 20 giugno 2012 al 28 gennaio 2013).

Che un mito rappresentasse l’archetipo della società dei consumi ce l’aveva già insegnato Andy Warhol, che di Marilyn immortalò quell’allure in una celeberrima serigrafia, come già fece per un’iconica pubblicità di Chanel N°5. Un profumo epico ed attualissimo, ma che molto deve alle abitudini della diva americana che ogni notte sognava la sua vita “vestita” solo di tre gocce di quel distillato di donna vera. Tuttavia, per Costance Collier, grande attrice di teatro del Novecento e stimatissima insegnate di recitazione della Monroe fino al 1955, quella fu sempre una “bellissima bambina”. Ne era convinto anche Truman Capote, geniale scrittore che la ritrasse in Musica per camaleonti, un’intervista in cui l’attrice ammetteva il rimpianto di non essere considerata una grande artista. Parole profetiche, dal momento che proprio Capote si ispirò a lei per la smaliziata prostituta di Colazione da Tiffany, e quanto s’inalberò l’autore di A sangue freddo per quella scelta cinematografica ricaduta sulla filiforme Audrey Hepburn! A quella stessa malinconica rassegnazione si è teneramente ispirata Michelle Williams per incarnare la modernità di un mito immemore, nonostante Marilyn (My week with Marilyn) inquadri solo una travagliata settimana nella vita dell’attrice. Nel cogliere quell’incredibile solitudine sul set de Il principe e la ballerina (1957), film brillante e parzialmente sbagliato di Lawrence Olivier, la pellicola di Simon Curtis (dal 1° giugno nei cinema italiani) si sofferma sulle insicurezze di una donna che si reputava fallita ed inespressa.

Peccato che troppo a lungo di Marilyn si disse che era un corpo da ammirare, ed è fuor di dubbio che le prime parti fossero foraggiate da quella carica erotica che l’attrice visse sempre con imbarazzato dualismo. Da una parte era lusingata dall’eccitazione latente che gli uomini più disparati le lasciavano intendere di provare, come quando Groucho Marx, occhiali spessi e baffo malandrino, in Una notte sui tetti (1950) ammetteva di capire perché tutti gli uomini la seguissero. D’altro canto ne era anche umiliata, ricordando le ore passate in ginocchio sulla moquette dei produttori. Aveva una falcata sinuosa che fece la fortuna di Niagara (1953) tragico noir di Henry Hathaway che le illuminò il ciottolato del successo, dopo le prime particine in Giunga d’asfalto (1949) di Huston ed Eva contro Eva (1950) di Mankiewicz. Le sembrava d’essersi lasciata alle spalle gli orfanotrofi dell’infanzia, credeva che Norma Jeane Baker (suo vero nome) fosse rimasta confinata nell’odiosa periferia di Los Angeles, ma in realtà cercò sempre qualcuno che amasse la “bambina” prima del mito. Probabilmente l’unico capace di cotanto amore fu Joe Di Maggio, campione di baseball e uomo troppo timido per lei. Fu il secondo marito di una vita sentimentale totalmente squilibrata e la perse per il gaglioffo e spocchioso Arthur Miller. Dopo la sua morte il primo le fece recapitare sulla tomba un mazzo di rose rosse ad ogni suo compleanno. L’altro invece vi ricavò ispirazione per un cinico dramma teatrale del 1964: Dopo la caduta. E se tutto si conosce di Olivier, Sinatra e i due Kennedy, fu soprattutto per Yves Montand sul set di Facciamo l’amore (1960) che l’attrice provò qualcosa di forte. Simone Signoret, moglie del divo francese e diva anch’essa, fu la prima a capirlo quando ammise di non capacitarsi di come la Monroe non avesse “buoni ricordi personali da raccontare. Nessuna di quelle storie di risate a crepapelle con gli amici […]. Tutto questo le era estraneo”.

Rimangono di Marilyn immensi capolavori della storia del cinema e sequenze di celluloide celeberrime, come la biancheria intima riposta nel freezer e la gonna che si alza al vento del metrò in Quando la moglie è in vacanza (1955), le calze a rete di Fermata d’autobus (1957) e l’ukulele di A qualcuno piace caldo (1959). Ma un’esistenza talmente segnata dalla morte non poteva che concludersi con le inquadrature maledette de Gli Spostati (1960), ultima apparizione della Monroe che, in mezzo alla solitudine del deserto del Nevada, urlava contro i cacciatori di cavalli: “Fermatevi, assassini”. Assassini di libertà.

di Claudio Salvati